A volte ritorna



Sono in ritardo, come al solito. Esco di corsa da casa e prendo la bici dal garage, mentre sento vibrare il telefono nella borsa. E adesso chi è, penso, frugando nella borsa con una mano, mentre con l’altra tengo il manubrio della bicicletta.
Rispondo mentre già sto pedalando e do per scontato che sia Giulia: "Sono già in bici, sto arrivando, cinque minuti...se sopravvivo..."
Attraverso la strada senza far caso all’auto in arrivo, che mi fa però notare la sua presenza con un considerevole colpo di clacson.
Nel frattempo, al telefono, sento rispondere una voce familiare, ma che non sentivo da così tanto tempo: "Stai scherzando?"
Do una sbandata con la bici e per poco non finisco a terra, ma appoggio il piede appena in tempo e riesco a rimanere in piedi.
Porto di nuovo il telefono all'orecchio. Chi mi vede penserà che abbia visto un fantasma - probabilmente sono sbiancata abbastanza da sembrare io, il fantasma.
"Sei tu?"
"Sì."
È una voce da un passato che credevo, speravo, di essermi definitivamente lasciata alle spalle. Credevo fosse finita, speravo che lo fosse, volevo che lo fosse, ma in fondo non l'avevo mai dimenticato.
Non riesco a trovare parole per rispondergli, i ricordi mi invadono, mi soffocano, mi annebbiano la vista. E persa come sono nella foschia della memoria lo sento chiedermi come sto, con quel suo tono leggero, come se non fosse passato più di qualche giorno, come se questi tre anni non fossero durati più di tre giorni.
Bene, sto bene, gli rispondo.
Sono ancora ferma al lato della strada. So che dovrei andare, che sono in terribile ritardo, ma qualcosa dentro di me insiste a non voler interrompere questo momento.
Sento un -bip- all'orecchio. Avviso di chiamata. Il mio ritardo si sta allargando. Lo dico a lui che mi risponde come ha sempre fatto, come se non avesse mai smesso di avere quindici anni: "No...ma perché?"
"Perché ho un appuntamento e sono già in ritardo."
"Un appuntamento?"
"Sì, un appuntamento."
"Rimandalo."
"Lo fai sembrare semplice...non posso rimandarlo."
"È un ragazzo?"
“Ti metti a fare il geloso? Ha una faccia tosta incredibile! Comunque no, non è un ragazzo e anche se fosse non credo che ti dovrebbe interessare."
"Hai ragione."
Forse ho esagerato, non avrei dovuto rispondergli così bruscamente. Lo saluto dicendogli che se vuole ci possiamo sentire più tardi.
Chiudo la chiamata e riparto ad una velocità che neanche lo Sputnik, brucio gli incroci, faccio slalom tra i pedoni e sfreccio tra le auto accompagnata da un coro di clacson.
Infine inchiodo la bici di fronte a casa di Giulia, di fronte a lei che mi aspetta con le braccia incrociate sul petto. Dire che è arrabbiata, in questo momento, è poco meno che un eufemismo. Come minimo è infuriata. Del resto, il mio è un ritardo di quaranta minuti. Non ho quasi neanche il coraggio di chiederle scusa.
"Dimmi che è successo qualcosa" mi dice, gelida.
"Carlos."
“Cos’ha fatto?”
“Mi ha chiamata. Mentre venivo da te.”
Giulia non l'ha mai incontrato, ma le ho raccontato la storia intera, di come ci eravamo conosciuti e follemente innamorati nei nostri appassionati diciotto anni. Era diventato il mio universo, l’unica realtà che conoscevo. Per un anno Carlos era stato il mio mondo a parte.
Poi c’eravamo lasciati e lui era partito per tornare agli antipodi del mondo, dove è rimasto per tre anni, lontano dall'Italia, lontano da me.
Giulia sa che per tutto questo tempo non l'ho mai dimenticato e non ho smesso di provare qualcosa per lui. Mi aveva spezzato il cuore, ma io non avevo mai smesso di cercarlo. Giulia sa bene cosa significa per me averlo ritrovato – o meglio, che lui abbia ritrovato me. Ora che finalmente avevo trovato il mio equilibrio, in una realtà in cui lui non era presente.
"Vuoi parlarne?"
"No, non adesso. È meglio se andiamo."
"Senza regalo?"
"Prendiamo qualcosa mentre andiamo. Ci sarà qualche negozio ancora aperto in giro."
Lascio da lei la bici e ci incamminiamo verso la piazza. Il ristorante è a due passi da casa sua.
Camminiamo in silenzio, io non ho nulla da dire. Ho lo sguardo sognante puntato sul vuoto e sono persa nei miei pensieri, nel fresco ricordo della voce di Carlos.
Giulia, invece, tiene le mani sprofondate nelle tasche del giubbotto, lo sguardo basso. Me ne accorgo quando ormai siamo quasi arrivate al ristorante. E nessuna delle due si è preoccupata di trovare un negozio aperto in cui prendere un regalo di compleanno.
"Mi ha chiamata mentre partivo da casa" le dico.
Lei non mi risponde, continua a tenere le mani nelle tasche e a guardare con convinzione il pavimento stradale.
"Non so neppure perché ha chiamato..."
"È tornato" mi risponde Giulia, improvvisamente.
Eccolo. Il fantasma del passato che si insinua tra di noi, un passato che non abbiamo condiviso e che non potremo mai condividere, non così come condividiamo il presente. Lo sento come un muro, un alto muro che mi impedisce di capire cosa pensa, di leggere nei suoi pensieri.
Provo a ristabilire un contatto, ad aprire una breccia nel muro: "Non lo so. Non abbiamo parlato molto. Dovevo venire da te."
Giulia però gira la testa dall'altra parte e, come se neanche avessi parlato, indica una borsa nella vetrina di un negozio che miracolosamente è ancora aperto e che forse è l’unica occasione per non fare brutta figura alla festa di compleanno, anche se si tratta della festa di una ragazza che abbiamo incontrato due volte in tutta la nostra vita.
Una volta comprata la borsa, cala di nuovo il silenzio. Quando arriviamo di fronte al ristorante, mi prende per un braccio prima che possa entrare: "Tra di noi non cambia niente."
Il tono è serio, come se non ammettesse repliche dal destino. Sa bene che qualcosa è già cambiato. È successo quando ho risposto al telefono e ho sentito la voce di Carlos. In quel momento tante cose sono cambiate.
Vogliamo, però, illuderci, convincerci che sia questione di una serata. Domani mattina, svegliandoci, ne rideremo e decideremo che ‘il caso è chiuso, la corte si aggiorna’, prendendo in giro la carriera da avvocato che il padre di Giulia vorrebbe tanto per lei.
Rimaniamo per un paio di secondi a guardarci. Lei vorrebbe una risposta, magari persino rassicurante. Io rimango in silenzio. Non riesco a mentirle e non riesco a dirle la verità. Rimango in un limbo silenzioso e tutto quello che riesco a fare è sorriderle, o almeno tentare di farlo.
Per una volta che andava tutto bene. Avevo una vita, finalmente. Dopo anni ero riuscita a lasciarmi tutto alle spalle ed ecco che ricompare, a complicarmi l’esistenza, a risvegliare sentimenti che avevo sepolto. Carlos è arrivato a rovinare tutto. Per una volta che tutto andava bene.
Guardo Giulia mentre entra dalla porta a vetri del locale, sembra sempre lei, la solita lei. Ma a guardarla bene non è così serena come vorrebbe sembrare. La seguo all’interno e, avvicinandoci alla folla, tutte e due indossiamo la maschera di ipocrita felicità più efficace che riusciamo a trovare. Bisogna dire che nessuna delle due è particolarmente convincente. Tuttavia sembra che nessuno se ne accorga e tutti prendono i nostri mezzi sorrisi per espressioni di pura gioia.
Non che sia l’evento del secolo, ma la festa è ben riuscita. Gente che balla in pista, gente che balla sui tavoli. Qualche coppia ha preso il bagno per una camera d’albergo, mentre il dj continua a mixare pezzi nuovi e classici intramontabili. Per nostra fortuna c’è sempre qualcuno che attira l’attenzione della folla, per un motivo o per un altro, così io e Giulia riusciamo a starcene in disparte.
Ce ne andiamo prima degli altri, ma sono tutti già talmente ubriachi da non farci minimamente caso.
Quando guardo l’orologio e vedo che sono appena le undici. Mi chiedo come si possa tornare a casa così presto il sabato sera, è inconcepibile. È da una vita che non torno prima delle quattro e questa sera sarò a casa alle undici e mezza, per dire tanto.
Per strada, Giulia si accende una sigaretta e io faccio lo stesso.
“Cambierà tutto” mi dice “Tu adesso non potrai fare a meno di pensare a lui e noi, quello che siamo, quello che abbiamo, tutto di noi passerà in secondo piano.”
“Non ha senso quello che dici” le rispondo.
“Sì, che ha senso. E lo sai bene anche tu.”
Rimaniamo in silenzio. Di nuovo, non so cosa risponderle.
“Potrebbe non essere tornato davvero.”
“Se non fosse tornato non avrebbe avuto senso chiamarti da…dov’è che sta? In Cile?”
“Argentina.”
“Sempre Sud America. Comunque, mi sembra abbastanza ovvio che oggi pomeriggio stava in Italia.”
Arriviamo di fronte a casa sua. Faccio per prendere la bici, ma lei mi ferma.
“Sono appena le undici, non dirmi che te ne torni a casa così presto!”
“E dove dovrei andare?”
“Fermati da me un po’. Ci guardiamo un film, facciamo due chiacchiere. Magari poi ti fermi a dormire qui, così non te ne devi tornare sola a casa. Al buio. Di notte. Sai, i medici lo sconsigliano.”
Mi sale un sorriso alle labbra. Non riesco a dirle di no. Tanto più che la mia coinquilina di sicuro non sentirà la mia mancanza.
E poi le undici è davvero troppo presto per andare a dormire.

La mattina, come sempre, mi sveglio io per prima. Mi alzo e preparo il caffè. Lei ci mette almeno una mezz’ora a percepire l’aroma nell’aria, svegliarsi, rendersi conto che è al mondo e finalmente venire in cucina, dove io nel frattempo ho apparecchiato per la colazione.
“Dovresti rimanere qui a dormire più spesso.”
“Dovresti invitarmi più spesso.”
“Stasera rimani?”
“Vado da mia madre.”
“Non è vero, ci sei già andata la settimana scorsa, quindi non ci devi tornare fino a domenica prossima.”
“Ma cosa sei, la mia segretaria?”
“Ho una buona memoria. Allora, rimani?”
“Vedrò cosa posso fare.”
La verità è che ho ricevuto un messaggio di Carlos. Mi chiedeva di vederci proprio stasera, ma non avevo intenzione di dirlo a Giulia. Ieri sera ero riuscita a farla ragionare, le avevo fatto cambiare idea sulla questione. L’avevo convinta che magari non è realmente tornato.
E invece è tornato. E mi vuole vedere.

Lascio casa di Giulia e mi sento come se già la stessi tradendo. Non le ho detto niente del messaggio di Carlos e le ho mentito riguardo a stasera. Non avrei dovuto farlo, mi sento così male a riguardo. Pensavo che smettere di parlarne sarebbe servito. In fondo posso chiudere la questione da sola, così da dimostrare a Giulia e a me stessa che tra noi è davvero tutto come prima, che siamo sempre noi, nonostante Carlos.
Ora però non ne sono più tanto convinta.
Una volta a casa vado sotto la doccia e ci rimango per almeno mezz’ora. L’acqua che scorre sciacqua via i pensieri, sembra tutto più chiaro nel vapore della doccia. Solo quando l’acqua comincia a diventare fredda, il vapore è scomparso da un po’ e decido che è ora di uscire e tornare nel mondo.
Prendo il telefono e compongo il numero: devo confermare un certo appuntamento per questa sera.
È un tuffo nel blu profondo dei ricordi, sentire la voce di Carlos rispondere.
“Ciao, sono io.”
“Ciao, come va’?”
 “Bene, tu?” gli rispondo. Confesso che mi aspettavo una conversazione un po’ più brillante. Ma c’è tempo.
“Bene. Questa sera?”
“Cosa hai in mente di fare?”
“Non lo so. Cena?”
“Pizzeria?”
“Ok, conosci un posto?”
“Abito qui da una vita, ne conosco almeno quindici.”
“Uno in particolare?”
“Ce n’è uno non lontano da casa mia.”
“Ok, allora andiamo lì.”
La conversazione continua su questi toni surreali per un po’. Alla fine concordiamo che mi passi a prendere lui alle sette e mezzo.
Alle sette e venti Carlos suona alla porta e io non sono ancora pronta.
“Fra! Apri tu, fallo sedere sul divano, io arrivo!”
Fra è la mia coinquilina, all’anagrafe Francesca. È la persona più assurda che io conosca.
Esce dalla cucina con una birra in mano e va ad aprire. Io mi nascondo in camera prima che lui possa vedermi.
Dopo cinque minuti sono pronta, ma rimango seduta sul letto. Sono terrorizzata. No, dai, come faccio ad avere paura, è lui, Carlos, l’ultima persona di cui dovrei avere paura. Eppure ho paura. Forse ho anche ragione ad avere paura. Non so neppure perché sia tornato. Non so che cosa abbia fatto in questi anni. Potrebbe essere finito nella criminalità organizzata, nel commercio illegale di armi o potrebbe essere uno spacciatore. Ok, basta, frena i pensieri, non è il caso di cadere in paranoia. Vado.
Mi alzo dal letto, ma mi fermo lì, non riesco a muovere un passo. Rimango immobile in mezzo alla stanza, paralizzata da un terrore inutile che non so nemmeno da dove arriva, una paura che non riesco a capire. Ho la mente bloccata, non riesco neppure a pensare. Per fortuna Frankie compare sulla porta a scuotermi.
“Ehi, Cenerentola! Il principe ti sta aspettando di là. È meglio che ti sbrighi che non so già più che raccontargli.”
Non oso chiederle cosa gli abbia già raccontato.
Esco dalla stanza e gli arrivo alle spalle. Carlos è seduto sul divano e non si accorge di me. È da così tanto tempo che non lo vedo, mi chiedo se sia cambiato.
Gli dico: “Ciao.”
Si gira e mi vede. Si alza, ma non si avvicina.
“Ciao” mi risponde e non è cambiato di una virgola. È solo un po’ più alto. Ha i capelli più lunghi, ma i suoi occhi verdi sono sempre gli stessi, la sua espressione sempre così sicura. Sembra che sia a suo agio in ogni situazione, tutto è sempre sotto il suo controllo.
“Andiamo?” mi chiede.
Non si avvicina neppure. Al telefono era tranquillo, spigliato, dava l’impressione che per lui il tempo non fosse passato. Di persona, sembra che siano passati decenni. Mi guarda come se fino all’ultimo avesse sperato che io non ci fossi. Se possibile, pare addirittura più spaventato di me.
Usciamo di casa e andiamo alla sua auto - cioè quella di suo zio, quello rimasto in Italia. Durante tutto il viaggio non facciamo uno straccio di conversazione. Le uniche parole le dico io e sono le indicazioni per raggiungere la pizzeria. Ci mettiamo pochi minuti ad arrivare, ma sono minuti lunghissimi. D’improvviso, senza apparente motivo, mi viene in mente Giulia.
C’era stata una volta in cui, con una naturalezza estrema, si era messa a parlarmi del tempo e della relatività.
Io devo averla guardata in modo strano, perché ad un certo punto buttò gli occhi al cielo, ci pensò un po’ su e tentò di spiegarmelo con parole comprensibili: “È come quando passi un minuto tra le braccia di chi ami, quel minuto ti sembrerà un nanosecondo; poi passi un minuto sulle braci ardenti e un minuto ti sembrerà lungo come un anno intero.”
Mi sono sempre ricordata di quella frase, ogni volta che mi fossi sentita a disagio, come sulle braci ardenti, appunto. E così anche questa volta. Sento che sarà una serata lunga come un secolo.
La pizzeria è piena, ma Giacomo, il proprietario, è un amico e ci libera un paio di posti. Ci sediamo uno di fronte all’altra e lui comincia a guardarmi. Ha messo su quel sorrisetto scemo che detesto tanto e non dice niente. Deve avere superato la fase terrore e adesso assomiglia più ad uno scorpione con la coda alzata, pronto a colpire. Odio quando fa così e lui lo sa bene.
“Come va l’università?”mi chiede.
Comincio a raccontargli di me e degli ultimi tre anni senza di lui. È stata dura, però, reprimere l’istinto di rispondergli acidamente con un “bene, sai, dopo che te ne sei andato mi sono diplomata al liceo. Ora faccio il secondo anno all’università di economia e va alla grande!”
Meglio di no. Quel sorrisetto mi dice che sta meditando qualcosa e non sono per niente impaziente di saperlo. Le sue trovate sono sempre piuttosto opinabili, ma lui potrebbe fare l’avvocato del diavolo e ti ci ritrovi sempre immersa fino al collo prima di avere il tempo di accorgerti quanto sei fregata. Quando stavamo insieme era quasi divertente, adesso lo è un po’ meno. Ecco perché sono ferma e decisa a mantenere viva la conversazione almeno fino al dolce. Temo il momento in cui sarà lui a parlare.
Inevitabilmente, però, con la morte del canarino di mia zia muoiono anche i miei argomenti di conversazione.
E ora che faccio? Potrei fingere un malore. Oppure potrei casualmente accorgermi di aver lasciato il telefonino in macchina...no, quello è sul tavolo.
Non faccio in tempo ad inventarmi altro, che lui coglie l’occasione per dire: “Volevo chiederti una cosa.”
Tento di mascherare il nervosismo prendendo un sorso d’acqua: “Cosa?”
“Vieni con me?”
“Stai parlando di una passeggiata al parco o di una vacanza ai tropici?”
“Sto parlando dell’Argentina.”
L’ultimo sorso d’acqua prende la via sbagliata e incomincio a tossire. Lui mi versa ancora un po’ d’acqua, mentre io tento di riprendere a respirare: “Cosa scusa?”
“Io riparto martedì, vieni con me, stai là un mesetto, poi torni qui, così puoi continuare a seguire l’università.”
“Certo, io parto dopodomani, passo un mese in Argentina con te e torno a casa come se niente fosse. Scordatelo!”
“Allora iscriviti all’università là.”
“Là dove?”
“In Argentina.”
“Tu stai scherzando.”
“No.”
Faccio un respiro profondo. È difficile credere che stia parlando seriamente. Eppure lui è fatto così, tende a credere di essere il sole, mentre tutti gli altri pianeti gli girano intorno. Quindi se lui deve stare in Argentina, ne consegue che io devo andare in Argentina. Per quanto ne so, è già un gran gesto di umiltà l’essere tornato in Italia per chiedermi di andare con lui.
Io, però, non posso farlo e tento di trovare le parole per spiegarglielo: “Siamo stati insieme tre anni fa, è passato tanto tempo, troppo tempo. Sono cambiate troppe cose. Siamo cambiati noi e sono cambiate le nostre vite. Non puoi comparire dal nulla qui così e credere che io venga con te.”
Lui continua a guardarmi senza parlare. Lo trovo a dir poco irritante.
“Non verrò con te, non ora, non così.”
“Non ti ho chiesto di sposarmi. Solo che martedì riparto e volevo stare con te un po’ più di tempo.”
“Perché non mi hai cercata prima?”
“Perché non lo hai fatto tu?”
“Io l’ho fatto! Ma tu eri scomparso, ti eri dileguato nel nulla!”
Abbassa lo sguardo. Forse ho esagerato, ma non sono riuscita a trattenermi. Per anni avevo represso la frustrazione. Se n’era andato senza dire niente, senza preavviso. Per un po’ avevo pensato che sarebbe tornato. I primi tempi l’ho cercato, ho provato a rintracciarlo, ma tutto è stato inutile, era scomparso, come non fosse mai esistito. L’ho aspettato, poi l’attesa è diventata un’abitudine e alla fine non ci ho fatto più caso.
“Quindi non vieni?” insiste lui.
Scuoto la testa, guardando le mie dita che si intrecciano sul tavolo.
“Non voglio che tu scompaia ancora” gli dico. Ho vissuto il trauma una volta, non voglio ripeterlo.
Forse perché ha capito il mio disagio, più probabilmente perché abbiamo finito di cenare, Carlos chiama il cameriere e chiede il conto.
“Adesso ho il tuo numero di telefono.”
Gli sorrido, ma non dico niente.
“Ma se ti chiamo, mi rispondi?” continua lui.
“No” gli dico. Il mio sorriso si allarga. Sorride anche lui. Ci siamo capiti, come ai vecchi tempi, quando parlavamo poco, ma ci dicevamo tanto.
Paga lui il conto e usciamo dalla pizzeria.
“Dove ti porto?” mi chiede.
È un tipo perspicace. La nostra serata è finita e dovunque io stia andando, lui non verrà con me.
Io non vorrei lasciarlo andare così, ma allo stesso tempo ho voglia di andare da Giulia, voglio confessarle tutto, raccontarle la serata, condividere con lei lo sconvolgimento che sto vivendo, chiederle cosa devo fare, come devo gestire la cosa, perché so già che lei può rispondere ai miei dubbi, lei può aiutarmi a trovare la strada per uscire da questo casino, per mettere ordine in questa confusione, in questo tutto.
E io che pensavo di poter gestire da sola la situazione.
Non so cosa devo fare. Non è la prima volta, ma una sensazione così intensa non l’ho mai provata. È successo che sapessi cosa fare, ma non avessi il coraggio di farlo, ma questa volta l’indecisione mi sta dilaniando: Carlos parte tra due giorni, è davvero così che voglio lasciarlo?
“Domani potremmo vederci. Prendiamo un caffè, facciamo un giro” gli dico.
“Ti passo a prendere. A che ora?”
“Domani ho lezione solo alla mattina, ci possiamo vedere nel pomeriggio, tipo verso le tre. Poi facciamo un giro.”
Lui annuisce, non dice altro.
“Non hai risposto. Dove ti porto?”
“Portami a casa.”
Andrò da Giulia, ma non voglio farmi portare da lui. Un po’ perché non voglio che lui sappia dove voglio andare. Un po’ perché ho detto a Giulia che sarei rimasta in casa a studiare e non volevo presentarmi accompagnata in macchina dal mio ex. Non sarebbe stato un buon inizio.
Quando arrivo a casa, aspetto cinque minuti per essere sicura che se ne sia andato, poi prendo la bici e parto. Proprio come ieri, attraverso la strada a tutta velocità, non mi curo di chi in quel momento passa per la strada.
Troppo tardi vedo l’auto che sta arrivando. Vedo la luce dei fari, vicina, intensa. Poi il buio.

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