Fine dei giochi

"Ho un'ora da stare in giro, sei a casa?"
Domanda retorica, visto che ha l'influenza da tre giorni.
Com'è strano pensare a lei chiusa in casa, lei che non rinuncerebbe allo sport per niente al mondo, neanche per un giorno; lei che non rinuncia allo studio e all'università neanche con la febbre alta.
La immagino allora seduta al tavolo, circondata da libri, una tazza di caffè accanto e una felpa pesante che la avvolge e le tiene caldo.
Mi risponde: "Stavo a studiare, ma faccio una pausa".
Salgo in macchina ed esco dal parcheggio. Sono dall'altra parte della città, ma per vedere lei anche dall'altra parte del mondo non sarebbe troppo lontano.
Per strada non c'è molto traffico, l'ora di punta è ormai passata, perciò arrivo da lei prima di quanto pensassi e decido di farle una sorpresa. Entro in un bar e prendo un po' di pasticcini. Manca poco all'ora di cena, quindi non li mangeremo insieme, ma magari sarà una scusa per tornare da lei più tardi.
Busso alla porta - il campanello è rotto da sempre e lei non sembra avere alcuna intenzione di ripararlo. Viene ad aprirmi subito, mi fa entrare e mi prende il cappotto. Ha indosso la felpa del suo fidanzato; significa che le manca e questo mi fa più male di un pugno nello stomaco.
Lui è lontano e rimarrà lontano ancora per qualche mese. Ora ci sono io accanto a lei e intendo rimanerci per tutto il tempo necessario, finché mi è permesso. Vorrei rimanerci per sempre.
Le porgo i pasticcini e vedo il suo viso illuminarsi. Non crede quasi che siano per lei. Ancora non capisco perché si aspetti così poco dagli altri, così poco da me. Ma devo ammettere che soffrirei se un giorno dovesse spegnersi quella luce di meraviglia nei suoi occhi.
Mi fa entrare e sedere sul divano, mette i pasticcini sul tavolo mentre le dico che "quelli li ho portati per dopo".
Si siede vicina a me e sento lo stomaco ribellarsi, i nervi si irrigidiscono e si tendono. La sento vicina, ma è così lontana. Vorrei stringerla, lo farei se potessi.
Mentre parla mi prende la mano, quasi senza pensarci. Gliela stringo lievemente e mi piace pensare che la sua esitazione sia dovuta a questo. Il mio cuore accelera i battiti e combatto contro l'istinto di baciarla. Ho paura che se ne accorga, che il mio sguardo riveli più di quanto dovrebbe.
Prima che possa rendermene conto è passata un'ora. Devo andarmene, glielo dico e oltre alla sorpresa, riesco a scorgere anche il disappunto: il tempo è passato troppo in fretta anche per lei.
Esco dicendole che "magari più tardi, dopo cena, potrei passare a sentire come sono i pasticcini".
Le farebbe piacere, dice, ma ha intenzione di andare a letto presto, quindi non devo fare tardi.
Per le dieci sarò da lei, le assicuro. Per riuscirci dovrò uscire prima dalla riunione, ma non sono preso in causa stasera, perciò non sarebbe un gran danno. Se mi lavoro bene il capo potrei uscire abbastanza presto ed essere da lei addirittura per le nove e mezzo. Questo significherebbe saltare la cena, ma non importa. Ne vale la pena.
Alla riunione sarei più partecipe se fossi assente, non posso fare a meno di pensare a lei.
Durante una breve pausa il capo mi si avvicina. Si è accorto del mio comportamento e mi chiede se c'è qualcosa che non va. Nulla, gli dico, sono solo pensieri che mi girano in testa, questioni personali.
Mi propone di andarmene prima, inutile che rimanga se non ho la testa per ascoltare e tanto meno intervenire. Lo ringrazio mascherando il sollievo e subito esco guardando con un sorriso l'orologio, che segna appena le nove di sera. Mi fermo a mangiare alla pizza al taglio che c'è all'angolo della via.
Alle nove e mezzo sono davanti a casa sua. Una morsa mi attanaglia lo stomaco mentre scendo dall'auto. C'è qualcosa che non va, qualcosa che non è come dovrebbe. È solo una sensazione, niente di reale. Niente di cui doversi preoccupare.
Ogni passo sempre più pesante, ogni secondo sempre più lento, ogni respiro più difficile. Mi avvicino alla sua porta, ma ad ogni momento mi sembra più lontana. Ho il forte presentimento che qualcosa non sia come l’avevo lasciata poche ore fa.
Improvvisamente mi trovo sulla soglia e senza accorgermene - troppo intensa è la sensazione per permettermi di pensare alle mie azioni - busso alla porta.
Sento passi pesanti che si avvicinano, o almeno credo di sentirli. La porta si schiude; lenta, troppo lenta, si apre completamente lasciando comparire, davanti a me, lui.
In un momento il mondo si è fatto di ghiaccio.
Io cerco di capire, lui mi chiede se ho bisogno di qualcosa, io non riesco a parlare.
Ogni emozione in me si è spenta, è scomparsa, rimango lì, in piedi, completamente interdetto. Poi sento la voce di lei. Sta chiamando lui. Gli chiede chi è alla porta, mentre compare alle sue spalle. Mi viene incontro, non mi aspettava così presto, dice. Lo so. Chiede al suo fidanzato di tornare in casa, mentre lei si chiude la porta alle spalle e rimane fuori con me.
Non capisco questo gesto, oppure non voglio capirlo. Non mi ha fatto entrare in casa ed è uscita per parlare con me, per mandarmi via.
Ha freddo, mi tolgo il cappotto e glielo metto sulle spalle. Lei protesta, ma non mi fa cambiare idea.
Cerca di giustificarsi, mi dice che è tornato all'improvviso, le ha fatto una sorpresa, ma mentre lo dice nessun sorriso le illumina il viso, come invece aveva fatto per i pasticcini.
Rimarrà per il week end. Io non dico niente, guardo le mie scarpe come se fossero la cosa più importante della mia vita. Invece la cosa più importante è davanti a me e io non riesco a guardarla. Non dopo averla vista con lui.
Mi chiede cosa mi succede, perché tengo lo sguardo basso.
E io che pensavo avesse capito cosa provo, invece non ha capito niente. Le dico solo che ci sono stati dei problemi al lavoro e che non mi sento molto bene. Scuse, ancora scuse. Mentire a lei, poi, sembra una cosa così infame.
La saluto in fretta e vado verso la mia auto. Lei mi chiama e mi segue, io non vorrei fermarmi, già è troppo doloroso lasciarla così. Mi viene però in mente che ha ancora il mio cappotto sulle spalle e quando mi volto la vedo che me lo tende. La vedo tremare e le dico di tornare in casa, la mia voce più fredda dell'aria che ci circonda.
Le dico che ha l'influenza, forse la febbre, dovrebbe rientrare. Lei rimane dov'è, non dice niente e questo è strano di lei, che ha sempre una parola per ogni occasione. Fa un passo avanti, poi si ferma. Si stringe nella felpa e questo mi basta per rimetterle il mio cappotto sulle spalle, poi l'istinto ha la meglio e mi ritrovo a stringerla a me, forte tra le mie braccia. Mi dico che lo faccio solo per scaldarla, ma non ne sono convinto neanche io. La lascio dopo quella che sembra un'eternità e le ripeto di tornare dentro.
Poi i pasticcini. Mi dice che dovevamo mangiarli insieme, che ero venuto per quello, no? No, ma non posso confessarglielo. Le dico che il suo fidanzato li saprà apprezzare ugualmente. Mi lancia una di quelle occhiate che da sole bastano a spiegare ogni cosa: lei non vuole mangiare i pasticcini con il suo fidanzato, sono io il ragazzo che vuole stasera.
Mi si stringe il cuore e mi manca quasi il fiato mentre le dico che "devo andare adesso, davvero". Non è vero, ma lei deve credere così.
Riprendo il cappotto e salgo in macchina. Questa volta, lei non fa niente per fermarmi.

I giorni passano nell'attesa di una sua chiamata, di un suo messaggio, ma tutto quello che ricevo è una telefonata di mia madre che mi ricorda della cena di Natale fra una settimana. Per la quarta volta le assicuro che ci sarò.
Mi sto comportando come uno stupido. In fondo perché dovrei credere che lei preferisca me al suo fidanzato, non ha senso. Sicuramente è stata soltanto una mia impressione, quella sera. Ho frainteso il suo sguardo, ho creduto che ci fosse qualcosa di più, quando invece non c’era niente.
Dovrei mandarle un messaggio, ma non so cosa scriverle.
Potrei chiamarla, così ci penserebbe lei a riempire i miei silenzi, ma non ne ho il coraggio.
Il desiderio di vederla cresce dentro di me e diventa l'unico pensiero a cui la mia mente approda, come una nave ad un porto sicuro in mezzo alla tempesta. Comincio a sentire un senso di naufragio, sono come perso ora che non sono con lei, ora che non posso essere con lei.
Per la quinta volta in dieci minuti guardo il telefonino sperando di vedere un suo messaggio e per la quinta volta non c'è niente.
Si fa sera e il telefono rimane muto. Devo fare qualcosa o rischio di impazzire.
La sua voce mi riempie il cuore quando risponde al telefono. Prima di poter pensare a qualunque cosa da dirle, mi sento chiederle scusa per come mi sono comportato l'altra sera.
La sento rispondere che sono stato davvero un cretino, poi si mette a ridere. Dice che i pasticcini erano davvero buoni, soprattutto quelli al cioccolato. Dice che il suo fidanzato è ripartito quella mattina. A questo io non rispondo.
Le chiedo se è a casa, se posso passare da lei. Meglio di no, mi dice. È stanca e domani sarà una giornata pesante. È una scusa, lo so e lei non fa niente per nasconderlo.
Chiudo la chiamata e il desiderio di vederla, già forte prima, è ora quasi insostenibile. Devo trovare un modo per passare di nuovo tempo con lei. È come se non potessi più respirare, il ricordo dell'ultimo incontro si insinua in ogni pensiero.
Non mangio e vado direttamente a dormire.
Prendo un libro e cerco di concentrarmi su ciò che leggo, ma non riesco a seguire una storia in cui non è lei la protagonista e non sono io al suo fianco.
Spengo la luce e chiudo gli occhi, lascio che i pensieri scorrano e mi perdo nel ricordo di lei. Lento arriva il buio, scacciato poi da un arcobaleno di sogni.

"Molla la pezza. Molla la pezza finché sei in tempo, prima di farti troppo male, prima di rovinare tutto."
È quello che mi diceva il mio migliore amico alle superiori.
Arrivavo in classe e mi sedevo vicino a lui, cominciavo a parlargli della bella di turno che però non mi considerava e se ne stava con il suo ragazzo. Molla la pezza, mi diceva, non ne vale la pena. Ed è quello che ho deciso di fare anche questa volta.
Dopo cinque giorni non una telefonata, non un messaggio. Dopo quella sera, non avevo più avuto modo di parlare, di spiegarle. Lei non aveva voluto rivedermi.
Ho passato mesi ad aspettare che cambiasse qualcosa, mesi in cui ho lasciato che la mia vita girasse intorno a lei, in ragione di lei.
Aver saltato la riunione quella sera, solo per andare da lei a mangiare i pasticcini, mi era quasi costato il posto, alla fine. Perso com’ero nei miei pensieri, neanche mi ero reso conto di quali sarebbero state le conseguenze.
In questi cinque giorni ho avuto tempo per pensare. Ho pensato che è difficile vivere senza di lei, ma ho anche pensato che è impossibile continuare a vivere così.
Ho pensato che sei lei non mi ha chiamato, non lo farò neppure io. Ho pensato di mollare la pezza.
Poi questa mattina. "Mi puoi passare a prendere?".
Lei gioca a pallavolo e io mi ero completamente scordato della partita.
Guardo fuori dalla finestra e vedo la pioggia bagnare il mondo. Gocce pesanti cadono sul cortile e di certo lei non può andare fino al campo in bicicletta.
Dovrei essere da lei fra mezz'ora. Le rispondo con uno sbrigativo "va bene", niente simpatia, niente entusiasmo.
Forse trattarla con eccessiva freddezza non è la cosa migliore, ma se serve a ristabilire le distanze tra di noi, quelle distanze che si sono così tanto accorciate, quelle distanze che per un breve momento sembravano essere scomparse, se servisse ad allontanarci e a permetterci di riappropriarci delle nostre vite, allora che sia ghiaccio nella mia voce e il più profondo distacco sia nei miei gesti e nei miei modi.
Mi preparo ed esco di casa, arrivo da lei presto e mi fermo davanti a casa sua.
Sto per avvertirla che sono qua fuori, ma mi fermo. Il telefono in mano, il pollice appoggiato sul tasto della chiamata.
Mi guardo intorno e rivedo il mio passato. Mi chiedo con che coraggio posso lasciare tutto questo. Vedo la porta di casa sua, la finestra del soggiorno. Vedo il bar da cui ho comprato i pasticcini. Vedo la strada. Vedo le case che la costeggiano. Vedo tutto questo e vedo lei in mezzo a tutto questo.
Questa è l’ultima volta, mi dico. Questo è il mio addio.
Premo il tasto di chiamata e lascio che il telefono squilli una volta prima di riattaccare.
Scendo dall'auto e l'aspetto appoggiato alla portiera. Lei esce con la sua borsa da sport a tracolla.
Vederla non smette di avere un effetto devastante su di me, soprattutto adesso. Mi porta quasi a tornare sui miei passi, a rivedere la mia decisione, ma mi ripeto che è la cosa giusta da fare, che non c'è alternativa.
Le apro il baule e lei mette dentro la borsa, poi sale in macchina. Non diciamo una parola, non c'è nulla da dire. Almeno per me.
Lei mi chiede cos'è successo. Cos'è successo a noi, alla nostra amicizia. Non so risponderle, non c'è una risposta, perché non è mai stata amicizia. Fin dal primo momento. Dovrei dirle quello che provo, questo è il momento giusto - ma c'è forse un momento giusto e uno sbagliato, un momento in cui tale rivelazione può suscitare un sentimento più profondo o diverso da quello che proverebbe lei in un'altra situazione; è forse possibile dominare in questo modo le emozioni altrui, sfruttando le altrui debolezze e cercando appoggio nelle altrui forze.
Solamente per un momento il pensiero di avere ancora una carta da giocare mi invade la mente e, scacciandolo, fermo l'auto davanti al portone del campo.
Lei fa per scendere, io la fermo prima che possa aprire lo sportello dell'auto. Le dico che per me non è cambiato niente, io sono sempre io e lei è sempre lei. Sta per rispondermi, ma arriva l'allenatore della squadra, la saluta e la chiama a parlare con lui. Non era così che l’avevo immaginato. Non avrei dovuto fermarla, avrei dovuto lasciarla andare. Così da poter scomparire dalla sua vita e lasciare che lei scomparisse dalla mia. E invece la mia mano si era mossa a fermarla, la mia voce le aveva parlato.
Non era così che doveva andare.
Prima di scendere mi dice che sono un bugiardo, che non è vero che non è cambiato nulla, è cambiato tutto e lei non sa spiegarsi come, né perché.
Aspetto che dica ancora qualcosa, ma lei scende dall'auto e va dal suo allenatore, lasciandomi in macchina a guardarmi le mani ancora appoggiate sul volante.
Mi sento uno stupido, per la seconda volta.
È ora di finirla, non posso più sopportare questa situazione.
Giro la macchina e torno a casa. Sono quasi sul punto di mandarle un messaggio, ma mi trattengo. Questo era il nostro addio, non c’era altro da dire.
Sto scappando da tutto, come un codardo, ma non me ne vergogno.
È la cosa giusta, mi ripeto, è la cosa giusta.
Arrivo a casa.
Mi siedo alla scrivania.
Accendo il computer.
Preparo la lettera: richiesta di trasferimento.

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